Alessandro Kokocinski, Petruska (2014), particolare - Bassorilievo su tela: cartapesta, olio, tessuto, carta, 194x130x35 cm
ALESSANDRO KOKOCINSKI. LE NOTTI AUDACI DEGLI ANGELI IMPERFETTI
di Tiziana Gazzini
La mostra dedicata ad Alessandro Kokocinski dalla Fondazione Roma Museo e fortemente voluta dal suo presidente Emmanuele Emanuele (Palazzo Cipolla - Roma, 17 settembre – 1 novembre 2015) esce dal cliché delle sofisticate esposizioni di rango internazionale, al quale la Fondazione Roma ha abituato il pubblico, ed è piuttosto una privatissima Wunderkammer abitata da antichi fantasmi e giovani apparizioni, uno spazio interiore che i visitatori sono autorizzati a violare.
Il titolo, Kokocinski. La Vita e la Maschera: da Pulcinella al Clown, è un omaggio al passato giovanile di Kokocinski come acrobata nei circhi sudamericani e ad alcuni nuclei resistenti del suo immaginario. Le circa ottanta opere esposte vanno dal 1977 (Yo Quiero a la Argentina y Ud?) al 2015 (Pensando a Grock) e sono suddivise nelle sezioni L’arena, Pulcinella, Petruska, Sogno, Maschera interiore, Clown che si propongono come declinazioni del gioco delle identità. Ma la mostra è ben altro. E’ la promessa di un viaggio rischioso da cui il visitatore uscirà diverso da come è entrato. Esperienza estetica, certo. Attraversando il percorso espositivo, però, succede qualcosa che va oltre le aspettative e le abitudini di chi “va a vedere una mostra”. Anche grazie alla complicità dell’allestimento firmato da Cesare Mari, e del light design di Giuseppe Mestrangelo, per la cura di Paola Goretti, lo spazio mentale dell’artista diventa concreto e i risultati sono perturbanti.
Senza effetti speciali, sembra di sentire rumori, voci, lamenti, risate. Ma sono vere solo le voci di Sergio Castellitto che recita la Preghiera del clown di Totò nella prima sala dedicata a L’arena, e di Lina Sastri in un filmato tratto da Corpo celeste, spettacolo firmato con Kokocinski (2001) e parte dell’installazione Non l’ho fatto apposta.
Perturbamento, inquietudine sono il prezzo da pagare per questa mostra dall’ingresso gratuito. Kokocinski è un profeta della memoria, il metteur en scène di un teatro di cui costruisce fondali, personaggi, storie, dannazioni e redenzioni. E’ barocco e anti-classico. Lavora sulle tensioni umano/non umano, vittime/carnefici, angeli/demoni. Anche i teschi che spuntano con frequenza nelle sue opere appartengono allo spettacolo barocco e alla sua versione anti-classica filtrata dalla tradizione popolare latino-americana dei calaveras e da evidenti contaminazioni espressioniste e surrealiste.
Con la sapienza di un allestimento che è anche lettura critica, L’arena è stata ambientata in uno spazio segnato da espliciti riferimenti a Francesco Borromini, il più anti-classsico, il più ombroso, il più inquieto protagonista della prima architettura barocca di una Roma teatrale e ambigua che esibisce il conflitto tra spazi interni e spazi esterni, e di quello stesso conflitto fa la propria scena.
La contemporaneità dell’opera di Alessandro Kokocinski si annida nel suo assoluto non conformismo. Non è conformista Kokocinski proprio perché conserva e nutre il seme della memoria. Non lo rifiuta e lo trasforma. Non è conformista Kokocinski, artista italo-argentino-russo-polacco, proprio perché non è anti-conformista (il conformismo più ingannatore è proprio l’anti-conformismo che subito si istituisce come nuovo canone e guai a metterlo in discussione). Non è stato, non è e non sarà mai un artista di tendenza (o di controtendenza) nel senso modaiolo del termine. Tendenzioso, sì. Schierato e militante, sempre.
Ha avuto coraggio, soprattutto con se stesso, a esporre, a esporsi nelle opere più recenti con materie, forme, colori che tengono insieme ogni dimensione del tempo artistico. Nelle sue grandi marionette (nella vita ha fatto anche lo scenografo, il burattinaio, il costruttore di bambole snodabili): quelle che accolgono il visitatore nell’arena barocca e le altre dedicate a Petruska e che tecnicamente sono “bassorilievi su tela” o “estroflessioni figurative”, come l’artista le ha battezzate, avviene qualcosa di nuovo, di inedito. Atmosfere da favola di Natale, ma nera e gotica, da Christmas Carol dickensiano. Il bassorilievo che domina l'arena e che s’intitola Sogno di un angelo in riposo sembra uscire da un Nightmare before Christmas (ma più E.T. Hoffmann che Tim Burton). Dallo spalto della tela che lo imprigiona, l’angelo in riposo si protende verso il visitatore col suo vestito tutto d’oro. Come il più sontuoso dei clown indossa una gorgera e come il re dei maghi porta un alto cappello a cono sulla testa ormai già liberata dalla staticità della tela. Il sogno di questo angelo in riposo non è innocente. Con audacia è sceso nell’arena e al risveglio troverà il bordo del mantello d’oro incrostato di trucioli e segatura a tradire la scorribanda notturna. I sogni e le ribellioni lasciano tracce.
Con Kokocinski si tratta sempre di varcare confini, geografici, identitari, linguistici, stilistici. Inutile provare a definirlo, perché lui, come un angelo in riposo, sa uscire da qualunque cornice, sorprendendo anche sé stesso.
“Angel obrero” lo definì il grande poeta andaluso Rafael Alberti in una poesia del 1973. Questa mostra è angelica e artiginale e nell’arena scendono l’intelligenza del corpo e la sapienza della mano. Kokocinski ama definirsi artigiano, piuttosto che artista. I dettagli delle sue mani mentre impastano la creta con cui forgerà le sue creature illustrano il pannello biografico e danno una chiave di lettura all’intera mostra. Per Kokocinski il contatto con la materia non mortifica le idee, semmai è la strada maestra per realizzarle. E per realizzare i sogni.
Davanti al pannello biografico si aprono due salette. Sono gli acuti della sezione Sogno: piccoli libri d’artista, tecniche miste dove a mescolarsi sono le mitologie di riferimento, i materiali di lavoro, pergamene, sete, carte antiche su cui Kokocinski ha lasciato segni a china, acquerello, biacca. Quante ali, quanti fili d’oro. Cuore segreto della mostra, queste due sale si schiudono al visitatore come scrigni e come scrigni emanano bagliori che l’illuminazione ha magicamente scolpito. Le gemme più preziose Kokocinski le tiene serrate nel cuore dei suoi sogni. Non sogni romantici, individualisti, narcisisti, ma sogni libertari e collettivi. Perché, dice Kokocinski, “le utopie si realizzano”. Anche se, lo sa bene, il lieto fine non è mai scontato, e quando arriva è imperfetto, come nella favola degli 11 cigni che sua madre, la russa Elena Costantinova Glowatskaya, gli raccontava nei primi anni ’50: i magici mantelli tessuti dall’eroina della fiaba con fili di cardi raccolti di notte nei cimiteri rompono il malefico incantesimo della matrigna invidiosa e riportano i cigni alla loro natura di bellissimi principi, figli dello zar, ma all’undicesimo cigno, proprio il principe amato dall’eroina, tocca un mantello incompleto. Resterà per sempre un principe/cigno. Senza braccia, ma avrà ali per volare.
Goyesca e barocca, tattile e materica, questa mostra spinge l’arte di Kokocinski verso una frontiera anche per l’artista inedita. Nelle sale di Palazzo Cipolla assistiamo a un’inattesa trasfigurazione e chi ha confidenza con la sua opera prova lo stupore di scoprire un artista nuovo.
Nel buio dove da tempo si aggira, Kokocinski trova gesti e materie per risultati sorprendenti. Approda a un attracco che non ha mai frequentato e lo fa con la sicurezza del vecchio marinaio la cui rotta è guidata dalle stelle e dal vento, dal suono delle vele e dall’odore della terra, dal corpo a corpo con le cime e con le sàrtie puntando la prua verso un mondo nuovo che ancora non vede, ma sa immaginare.
E’ un esploratore, Kokocinski, un migrante inquieto che sposta i suoi confini sempre un po’ più in là e non è mai sazio di scavalcarli. Il piacere di trattare e trasformare materie nuove per lui (cartoni ondulati, pezze, sete, bende, concrezioni varie) genera nuove forme, nuove possibilità cromatiche. L’immagine che illustra questo testo non ha bisogno di commenti: è un particolare di Petruska, una delle opere più recenti in mostra e una delle più intense e più nuove. L’estro di contaminare l’ immaginario circense e operaio che gli appartiene per via biografica con tecniche e materie che arrivano dalla storia dell’arte del ‘900 produce un risultato inedito. I suoi nuovi assemblaggi materici con tecniche di collage e pittura (quasi dei combine painting alla Rauchenberg) vanno oltre la comunicazione visiva – che pure è folgorante – e diventano un invito a essere toccati: liscio, ruvido, ondulato, caldo, freddo, morbido, rigido. E i colori arrivano da questa esperienza. Le mani vedono. Esperienza che ovviamente il pubblico non può fare, ma può immaginare. E’ un “anarchista” Kokocinski e da gran maestro della sua arte, se la getta dietro le spalle. Non può assecondare i suoi stessi risultati.
La Vita e la Maschera, s’intitola questa mostra. Quando la vita si acquieta e le maschere vengono deposte, allora, di notte, andrebbe visitata, con una candela in mano, per cogliere i bagliori degli ori e la cupezza delle ombre. Per provare il timor panico di vivere senza maschere, quando le ombre si allungano e si muovono e bisbigliano dietro le porte. La chiave metaforica dell’Arena, dei Pulcinella, dei Clown, svelerebbe la sua insufficienza a rendere ragione di una mostra che non è una mostra e non è un gioco d’identità, ma qualcosa di più radicale e primitivo e più magico. Le ultime opere di Kokocinski premono sul diaframma della vita, chiedono la parola, pretendono di scendere in pista per una sarabanda sgangherata e feroce, la vita, appunto. O la guerra. Come in Notte di guerra al museo del Prado, pièce teatrale scritta da Rafael Alberti nel 1956 e andata in scena per la prima volta nel 1973 al Teatro Belli di Roma con scenografie, costumi, luci di un giovane Kokocinski appena arrivato in Italia da un Sud America devastato dalla violenza delle dittature militari.
In Notte di guerra i personaggi dei quadri di Rubens, Goya, Tiziano, Velasquez, Beato Angelico escono dal sonno delle loro tele e scendono al fianco dei miliziani per resistere all’attacco sferrato contro Madrid nel luglio 1936 dalle truppe franchiste, scrisse allora Nicola Garrone. Kokocinski, che è sempre stato un “realista rivoluzionario” - come lo definì nel 1971 l’intellettuale tedesco Arie Goral - intende ancora, come l’Alberti di Notte di guerra, strappare l’arte agli interessi mercantili, per riportarla agli uomini. Kokocinski è un Prometeo di Dock Sud, la zona più degradata del porto di Buenos Aires, dove arrivò bambino dopo aver conosciuto la dolcezza della vita in una comunità nomade di indios Guaranì lungo il Rio Paranà.
Per Kokocinski ogni strumento, ogni materia, ogni linguaggio è lecito. Anche la fiaba magica. Le ultime opere realizzate per la mostra sono fisiche, imponenti eppure si librano in aria, vincono la legge di gravità. Fluttuano sulle quinte barocche e grigio chiare dell’allestimento. E’ una grande trasfigurazione collettiva che ha bisogno di molte ali: siamo tutti principi/cigni imperfetti, o Pierrot lunari perseguitati dalla propria ombra, ma è l’imperfezione a regalarci la leggerezza del volo. Ogni perdita, ogni passo falso, ogni risata amara, ogni ghigno trova in Kokocinski una certezza di redenzione. Arte spirituale, quanto più terrena e sporca.
Le lacrime di Petruska Kokocinski le asciuga tirando più in alto i fili che governano la marionetta. La ballerina (Nel cuore di Petruska) ballerà per lui senza nemmeno aver bisogno del filo.
La crudeltà, che diventa monumento nell’installazione Olocausto di un clown, non ha la meglio. Kokocinski ha concepito una cappella laica alla fine di una breve navata segnata da quattro terrecotte che ritraggono le smorfie grottesche di Grock (uno dei clown storici più famosi), mentre Pulcinella – una scultura del 2003 di dimensioni naturali, in vetroresina e bende – sembra arrivare dal tempo più antico del mondo e diventa un vecchio elemosiniere che per burla chiede offerte durante la sacra funzione. In fondo, l’altare. Un uomo nudo in croce, senza braccia, senza mani dove configgere chiodi. Le fauci della vita l’hanno già sbranato. Sul viso una maschera di cuoio. Gesto pietoso dell’artista, pudore verso il dolore di quella vittima, ma anche gesto di riscatto. Come in altri crocifissi creati da Kokocinski (tra i più forti, un Cristo in croce, barbaro e selvaggio, primitivo e coltissimo, che tiene appeso nel grande salone della casa di Tuscania), Cristo non ha nemmeno bisogno dei tre giorni di sepoltura prima di risogere. La resurrezione è tutta lì, in quel patire lo sberleffo e l’atrocità, senza esserne vinto. Una rappresentazione sacra e crudele che prefigura il riscatto delle vittime per tutti i poveri cristi di questo mondo. Ma anche il tormento di chi si fa Prometeo per portare agli uomini quello che gli appartiene di diritto. Il pane. L’arte.
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