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Testo di Tiziana Gazzini per il Catalogo della mostra "Primitivo e contemporaneo. Paolo Martellotti, Serge Uberti, Rafael Vanegas dialogano con la collezione di Arte Tribale di Carmen Moreno" (Spoleto, 18 giugno-31 luglio 2016) |
Gli studi di Serge Uberti e Paolo Martellotti si trovano a Roma, in Trastevere, a poche decine di metri l’uno dall’altro sull’asse di via della Lungara. La collezione di Arte Tribale costruita negli anni dalla passione di Carmen Moreno per le culture tribali di Africa e Asia ha trovato a lungo casa sulla stessa strada. Prima in una piccola galleria, poi in un angolo, in senso letterale, dello storico Palazzo del Buon Pastore oggi Casa Internazionale delle Donne. Lo studio di Rafael Vanegas è, invece, nei pressi di Orte, ma Vanegas ha anche uno studio romano, sempre a Trastevere, e poi è colombiano come Carmen Moreno. Serge Uberti, francese, che vive e lavora a Roma dal 1991, non ha frequentato scuole di Belle Arti e ha iniziato il suo lavoro di pittore a trentadue anni per un incontro, per degli incontri. Il fattore umano. Il suo è un umanesimo naturalistico e non solo per via dei soggetti: uomini che sono costruttori o guardiani di barche, di ombre, esposti ai venti. Guerrieri e stanze votive in un rapporto sacro con la natura fatto di rispetto e timore, ma anche di coraggio nel misurarsi con essa, da “creatore” a “creatore”. Serge lavora in esterno, nella piccola corte del suo studio trasteverino e pioggia, sole, vento, sono i suoi assistenti. La pioggia poi è il suo pennello preferito perché fa un lavoro di pulizia togliendo dalla tela o dalla carta i colori che non sono stati assorbiti. Il superfluo viene lavato via e resta l’essenziale: il segno, la traccia su cui applicare, a collage, monotipi e altre carte disegnate preferendo sempre le polveri e i colori delle terre. Gli alberi rituali di Uberti raccolgono una lattea linfa vitale, e possono uscire dalla superficie piana per ergersi su barche scolpite a tecnica mista pronte a varcare i mari del tempo. Gli alberi e il tempo appartengono anche alla grammatica artistica di Paolo Martellotti che lavora con legno, tempera, chiodi, corda per sculture progettate e costruite col rigore del più solido degli edifici, quasi un gesto di riparazione verso i suoi progetti architettonici che immagina e disegna come sculture visionarie. Eterna iconografia, forme simboliche per un carotaggio dell’inconscio collettivo che fa a meno del tempo e rende primitivi gli artisti contemporanei che partecipano a questo rito espositivo e rende contemporanei i frutti dell’arte tribale raccolti da Carmen Moreno nella sua passione per le radici dell’umanità tra cui oggetti che arrivano fino al XVIII secolo. Un viaggio che dura da decine di anni e di cui non è pensabile la fine. D’altra parte uno degli esiti certi di questa mostra, importante tappa del viaggio di Carmen, è l’attivazione di un tunnel spazio-temporale, in cui si perdono i tradizionali confini cronologici e tutto è uguale a tutto perché tutto è contemporaneo qui e ora, in una feconda contaminazione. Per come è strutturato, lo spazio di via Salara Vecchia si presta proprio a questo, consentendo alla mostra di essere la materializzazione di un’esperienza, non di un giudizio, di un dialogo, non di una serie di sterili monologhi. Una fuga dal tempo. Il tempo è stato inventato quando è stata inventata la vita ed è stato possibile pensarlo e nominarlo quando l’Homo ha iniziato a descrivere/scrivere il mondo sulle pareti della sua caverna sancendo l’evoluzione della specie. Ma la vita, secondo la “teologia scientifica” di Fred Hoyle (1915-2001), fisico, matematico, astronomo e autore di romanzi di fantascienza (uno per tutti: A come Andromeda), arriverebbe dallo spazio. L’ipotesi più verosimile condivisa da Hoyle è che il pulviscolo cosmico abbia fecondato la terra. E’ la teoria della Panspermia un nome che fa pensare piuttosto a una credenza da religione primitiva. Nelle foreste dell’Africa Equatoriale c’era una volta il regno Bakuba, particolarmente evoluto nelle arti della tessitura che i Portoghesi colonizzarono. Tra i tessuti pregiati della collezione Moreno ne spicca uno che risale al XIX secolo e arriva da quell’antico regno. E’ una veste dei capi del regno, chiamata Ntshak, tessuta in rafia a tessitura piana, tinta a colori minerali e lavorata poi a tecnica mista con ricami e intarsi. Un tessuto lungo 2,35 metri e alto 83 cm, con una bordura beige e nera a rappresentare la notte e il giorno, decorato a losanghe alle quali sono state applicate piccole conchiglie. La lunga veste racchiude una simbologia cosmica, una genesi che sarebbe piaciuta a Hoyle. “E’ un’interpretazione, perché non esiste nessuna traccia scritta”, tiene a precisare Carmen Moreno. Il fondo bruno rappresenterebbe l’universo, le conchiglie e i ricami a trina serpeggianti, l’acqua. La profondità oscura dell’universo è stata disseminata da una cascata di simboli a tre cerchi concentrici: nel codice ideografico Bakuba quel segno significa l’origine, la creazione. Quella veste appare come un cielo profondo e stellato e vederla è un’esperienza mistica. E se Immanuel Kant vedeva il cielo stellato sopra di sé, i personaggi di corte del regno Bakuba lo indossavano per le danze cerimoniali che rappresentavano il mistero della vita e delle origini del mondo. Rafael Vanegas vive e lavora tra Orte e Roma, dove è arrivato una trentina di anni fa. Una formazione da fotografo, è poi passato alla pittura mantenendo il gusto per il bianco e nero e dipingendo forme simboliche solo apparentemente astratte. A prima vista, o meglio alla seconda (l’artista ci tiene alla deriva enigmistica delle sue opere), si tratta di astrazioni grafiche del sesso maschile e femminile in tutte le loro declinazioni. Anche qui, segni, simboli, perfetti patterns per tessuti tribali e contemporanei. Un’opera rappresenta ufficialmente una porzione dello skyline di New York, ma può ben alludere a una selva di sessi maschili. A isolarne un dettaglio, però, ecco che la trama e i colori di questi oggetti verticali potrebbero arrivare da uno dei tessuti della collezione Moreno. |