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Testo di Tiziana Gazzini per il Catalogo della mostra "Primitivo e contemporaneo. Paolo Martellotti, Serge Uberti, Rafael Vanegas dialogano con la collezione di Arte Tribale di Carmen Moreno" (Spoleto, 18 giugno-31 luglio 2016)

Gli studi di Serge Uberti e Paolo Martellotti si trovano a Roma, in Trastevere, a poche decine di metri l’uno dall’altro sull’asse di via della Lungara. La collezione di Arte Tribale costruita negli anni dalla passione di Carmen Moreno per le culture tribali di Africa e Asia ha trovato a lungo casa sulla stessa strada. Prima in una piccola galleria, poi in un angolo, in senso letterale, dello storico Palazzo del Buon Pastore oggi Casa Internazionale delle Donne. Lo studio di Rafael Vanegas è, invece, nei pressi di Orte, ma Vanegas ha anche uno studio romano, sempre a Trastevere, e poi è colombiano come Carmen Moreno.
A legare questi artisti con Carmen e la sua collezione è l’appartenenza a una stessa tribù metropolitana. Gli incroci tra loro sono, sì, culturali, ma prima di tutto nascono dalla condivisione di geografie urbane e globali, da passi che si sovrappongono a passi, da luoghi che diventano comuni e rendono possibile e poi inevitabile il riconoscimento.
Perché è di questo che si tratta in una mostra che non è occasionale, ma necessaria. Anche la location di Spoleto è come la tessera mancante di un puzzle, il baricentro di un nuovo equilibrio. Martellotti, che è anche un architetto, ha lavorato qui tessendo legami con la memoria storica di una città fortemente segnata anche dal contemporaneo: il Teodelapio di Alexander Calder la rappresenta almeno quanto la Rocca Albornoz e Sculture nella città, l’invasione di artisti contemporanei voluta nel 1962 da Giovanni Carandente, ha conteso la scena ai fondali del centro storico diventando motore del Museo di arte contemporanea di Palazzo Collicola, il più importante dell’Umbria, poi intitolato a Carandente. Per non parlare del Festival dei 2 Mondi: un appuntamento costante e periodico per le arti arrivato quest’anno alla 59^ edizione.
I protagonisti di questa mostra si sono annusati e si sono riconosciuti. Codici di appartenenza e di espressione, percorsi (culturali, questa volta) se non del tutto comuni, decisamente affini, garantiscono la proficuità del dialogo, la non arbitrarietà delle scelte. Garantiscono un’esplosione di senso. Un big-bang estetico generatore di energie e – c’è da scommetterci – di future iniziative.
Qualcosa del genere era avvenuta lo scorso anno con la mostra allestita da Carmen Moreno nell’angolo del Buon Pastore. Talmente centrata da andare parzialmente in tournée con le opere della collezione Moreno e di Serge Uberti, nelle vertine di Valentino a Roma, Milano, New York, Parigi, Londra, Hong Kong in un altro possibile dialogo estetico, questa volta con la collezione della maison ispirata all’Africa.

Serge Uberti, francese, che vive e lavora a Roma dal 1991, non ha frequentato scuole di Belle Arti e ha iniziato il suo lavoro di pittore a trentadue anni per un incontro, per degli incontri. Il fattore umano. Il suo è un umanesimo naturalistico e non solo per via dei soggetti: uomini che sono costruttori o guardiani di barche, di ombre, esposti ai venti. Guerrieri e stanze votive in un rapporto sacro con la natura fatto di rispetto e timore, ma anche di coraggio nel misurarsi con essa, da “creatore” a “creatore”. Serge lavora in esterno, nella piccola corte del suo studio trasteverino e pioggia, sole, vento, sono i suoi assistenti. La pioggia poi è il suo pennello preferito perché fa un lavoro di pulizia togliendo dalla tela o dalla carta i colori che non sono stati assorbiti. Il superfluo viene lavato via e resta l’essenziale: il segno, la traccia su cui applicare, a collage, monotipi e altre carte disegnate preferendo sempre le polveri e i colori delle terre. Gli alberi rituali di Uberti raccolgono una lattea linfa vitale, e possono uscire dalla superficie piana per ergersi su barche scolpite a tecnica mista pronte a varcare i mari del tempo.

Gli alberi e il tempo appartengono anche alla grammatica artistica di Paolo Martellotti che lavora con legno, tempera, chiodi, corda per sculture progettate e costruite col rigore del più solido degli edifici, quasi un gesto di riparazione verso i suoi progetti architettonici che immagina e disegna come sculture visionarie.
Sono state alberi, le sculture di Martellotti, e tornano alberi, sacri e musicali, strumenti di un gesto profondamente architettonico e barocco che spiazza il rapporto tra la realtà e la sua rappresentazione.
A unire i protagonisti di questa mostra con la collezione di Carmen Moreno raccolta “con spirito d’artista”, dice Martellotti, “Non è nostalgia del primitivismo di memoria cubista, né semplicemente il fascino per il “primordiale” di Boccioni. E’ ritrovare i propri archetipi più facilmente nell’eterna iconografia dell’arte tribale”. Esclusa quindi la prospettiva antropologica, che, come ha scritto Mario Perniola nel recente saggio L’arte espansa, avrebbe sapore di neo-colonialismo.
Nello studio di Martellotti, tra libri, progetti, schizzi pittorici, spunta qua e là qualche totem di “vera” arte tribale che strizza l’occhio alle traslitterazioni proposte dall’architetto-scultore.

Eterna iconografia, forme simboliche per un carotaggio dell’inconscio collettivo che fa a meno del tempo e rende primitivi gli artisti contemporanei che partecipano a questo rito espositivo e rende contemporanei i frutti dell’arte tribale raccolti da Carmen Moreno nella sua passione per le radici dell’umanità tra cui oggetti che arrivano fino al XVIII secolo. Un viaggio che dura da decine di anni e di cui non è pensabile la fine. D’altra parte uno degli esiti certi di questa mostra, importante tappa del viaggio di Carmen, è l’attivazione di un tunnel spazio-temporale, in cui si perdono i tradizionali confini cronologici e tutto è uguale a tutto perché tutto è contemporaneo qui e ora, in una feconda contaminazione. Per come è strutturato, lo spazio di via Salara Vecchia si presta proprio a questo, consentendo alla mostra di essere la materializzazione di un’esperienza, non di un giudizio, di un dialogo, non di una serie di sterili monologhi. Una fuga dal tempo.

Il tempo è stato inventato quando è stata inventata la vita ed è stato possibile pensarlo e nominarlo quando l’Homo ha iniziato a descrivere/scrivere il mondo sulle pareti della sua caverna sancendo l’evoluzione della specie. Ma la vita, secondo la “teologia scientifica” di Fred Hoyle (1915-2001), fisico, matematico, astronomo e autore di romanzi di fantascienza (uno per tutti: A come Andromeda), arriverebbe dallo spazio. L’ipotesi più verosimile condivisa da Hoyle è che il pulviscolo cosmico abbia fecondato la terra. E’ la teoria della Panspermia un nome che fa pensare piuttosto a una credenza da religione primitiva.

Nelle foreste dell’Africa Equatoriale c’era una volta il regno Bakuba, particolarmente evoluto nelle arti della tessitura che i Portoghesi colonizzarono. Tra i tessuti pregiati della collezione Moreno ne spicca uno che risale al XIX secolo e arriva da quell’antico regno. E’ una veste dei capi del regno, chiamata Ntshak, tessuta in rafia a tessitura piana, tinta a colori minerali e lavorata poi a tecnica mista con ricami e intarsi. Un tessuto lungo 2,35 metri e alto 83 cm, con una bordura beige e nera a rappresentare la notte e il giorno, decorato a losanghe alle quali sono state applicate piccole conchiglie. La lunga veste racchiude una simbologia cosmica, una genesi che sarebbe piaciuta a Hoyle. “E’ un’interpretazione, perché non esiste nessuna traccia scritta”, tiene a precisare Carmen Moreno. Il fondo bruno rappresenterebbe l’universo, le conchiglie e i ricami a trina serpeggianti, l’acqua. La profondità oscura dell’universo è stata disseminata da una cascata di simboli a tre cerchi concentrici: nel codice ideografico Bakuba quel segno significa l’origine, la creazione. Quella veste appare come un cielo profondo e stellato e vederla è un’esperienza mistica. E se Immanuel Kant vedeva il cielo stellato sopra di sé, i personaggi di corte del regno Bakuba lo indossavano per le danze cerimoniali che rappresentavano il mistero della vita e delle origini del mondo.

Rafael Vanegas vive e lavora tra Orte e Roma, dove è arrivato una trentina di anni fa. Una formazione da fotografo, è poi passato alla pittura mantenendo il gusto per il bianco e nero e dipingendo forme simboliche solo apparentemente astratte. A prima vista, o meglio alla seconda (l’artista ci tiene alla deriva enigmistica delle sue opere), si tratta di astrazioni grafiche del sesso maschile e femminile in tutte le loro declinazioni. Anche qui, segni, simboli, perfetti patterns per tessuti tribali e contemporanei. Un’opera rappresenta ufficialmente una porzione dello skyline di New York, ma può ben alludere a una selva di sessi maschili. A isolarne un dettaglio, però, ecco che la trama e i colori di questi oggetti verticali potrebbero arrivare da uno dei tessuti della collezione Moreno.
Vanegas dipinge anche alberi dell’abbondanza dai cui rami pendono “fleurs du mal”, come lui li definisce. L’arte di Vanegas, però, è molto più casta di quanto vorrebbe sembrare. I “fiori del male”, soprattutto quando aggrediscono l’intera superficie della carta di riso su cui Rafael lavora, sono sì simboli sessuali, ma di un sesso prima del sesso e vanno oltre l’origine du monde. Richiamano più l’erotologia cosmica di Hoyle o la cascata di stelle delle vesti Bakuba. E’ il pulviscolo dell’universo che la terra accoglie per essere fecondata e generare la vita. A vegliare sul lavoro di Vanegas, maschere e totem alcuni ancora capaci di mettere a disagio chi ha il coraggio di guardarli negli occhi. “E’ accumulazione, non collezionismo”, dice Vanegas che li ha collocati senza enfasi e con apparente distrazione in mezzo al trovarobato del suo studio campestre. Ci convive, come con vecchi fratelli che la sanno più lunga.
Le antiche tribù lo sapevano e anche Vanegas, Uberti e Martellotti lo sanno. Siamo tutti figli delle stelle.